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Intervista

Bob Dylan: L’intervista di Playboy

Introduzione

Bob Dylan era spesso al Greenwich Village in New York, dove dormiva a casa di amici nel Lower East Side e occasionalmente cantava al Gerde’s Folk City, un bar che non piaceva ai bifolchi urbani del villaggio. Indossando un cappotto di pelliccia, jeans e stivali consumati sul filo spinner, la sua inevitabile uniforme all’epoca, sembrava una versione aggiornata ma malnutrita di Huck Finn. La sua voce era controversa. Alcuni trovavano il suo tono blando e ipnotico, mentre altri lo trovavano spaventoso, come un cane intrappolato nel filo spinato. Ma nessuno ha negato che la sua musica era di per sé personale e spesso ermetica, un mix di agghiacciante solitudine e challenge. Ci sono tracce di Woody Guthrie, echi di blues nero e accenni di country o western; ma essenzialmente, Dylan stava sviluppando il suo stile che era allo stesso tempo penetrante e avvincente. Eppure l’immagine di Dylan era strana. Alcuni trovavano la sua voce come un’imitazione di un cane con le zampe incastrate sul filo spinato, mentre altri lo trovavano come la voce di un uomo perso in un mondo che non comprendeva.

L’intervista

PLAYBOY: Le canzoni pop, hai dichiarato l’anno scorso a un giornalista, sono l’unica forma d’arte che descrive l’umore dei tempi.  L’unico luogo dove succede qualcosa è alla radio e nei dischi. È là che la gente viene allo scoperto. Non nei libri, non sui palcoscenici, non nelle gallerie. Tutta quest’arte di cui parlano resta sullo scaffale, non fa felice nessuno. Visto il fatto che più gente che mai legge libri e va a teatro e nelle gallerie d’arte, non pensi che questa presa di posizione sia cancellata dai fatti?


DYLAN: Le statistiche misurano la quantità, non la qualità. La gente delle statistiche è gente molto annoiata. L’arte, se una talcosa esiste, sta nelle stanze da bagno; lo sanno tutti. Andare a  una di quelle cose delle gallerie d’arte, dove ti danno latte e krapfen gratis e c’è un gruppo di rock’n’roll che suona: è tutta una questione di status. Non che sia contrario, attenzione: ma passo molto tempo in bagno. Trovo volgari i musei. Sono tutti antierotici.


PLAYBOY: Perché pensi che il rock’n’roll sia diventato un simile fenomeno internazionale?


DYLAN: Non riesco davvero a pensare che esista un rock’n’roll. In effetti, se ci pensi bene, qualunque cosa non abbia una vera esistenza è pronta a diventare un fenomeno internazionale. Comunque, cosa vuol dire rock’n’roll? Vuol dire Beatles, vuol dire John Lee Hooker, Bobby Vinton, il figlio di Jerry Lewis! Che dici di Lawrence Welk? Deve suonare qualche canzone rock. Queste persone sono tutte uguali? Ricky Nelson è come Otis Redding ? Mick Jagger è davvero Ma Rainey? Dal modo in cui una persona tiene le sigarette riesco a capire se gli piace Ricky Nelson. Penso sia bello amare Ricky Nelson. Ma mi sembra che stiamo uscendo dal seminato. Non esiste nessun Ricky Nelson. Non esistono i Beatles; oh, questo non è vero; ci sono tantissimi scarafaggi! (In inglese beetles, N.d.T.). Ma non esiste nessun Bobby Vinton. Comunque, la parola giusta non è “fenomeno internazionale” ma “incubo genitoriale”


PLAYBOY: Negli ultimi anni, secondo certi critici, il jazz ha perso molta della sua attrattiva per la giovane generazione. Sei d’accordo?


DYLAN: Non credo che il jazz abbia mai attratto la giovane generazione. Comunque, non so proprio chi sia questa giovane generazione. In ogni caso, non credo che riuscirebbero mai a entrare in un jazz club. Ma è difficile seguire il jazz; voglio dire, ti deve piacere sul serio il jazz per seguirlo. E il mio motto è: non seguire mai nulla. Non so quale sia il motto della giovane generazione ma penso che dovrebbero seguire i loro genitori. Voglio dire, che cosa potrebbe dire un genitore a suo figlio se il ragazzo arrivasse a casa con un occhio di vetro, un disco di Charles Mingus e le tasche piene di piume? Direbbe: “Chi stai seguendo?” E il povero ragazzo dovrebbe starsene là fermo con l’accusa nelle scarpe, una cravatta a farfalla all’orecchio e fuliggine che esce dall’ombelico e dire: “Il jazz, Padre, sto seguendo il jazz”. E suo padre probabilmente gli direbbe: “Oh sì, il nostro piccolo Donald, sapete, fa parte della giovane generazione”


PLAYBOY: Eri solito dire che volevi esibirti in pubblico il meno possibile, che volevi tenere per te la maggior parte del tuo tempo. Eppure ogni anno che passa fai sempre più concenti e incidi sempre più dischi. Perchè ? Per i soldi?


DYLAN: Ora tutto è diverso da prima. La scorsa primavera temo d’essere stato lì lì per smettere di cantare. Mi sentivo del tutto prosciugato, e il modo in cui andavano le cose creava una situazione stagnante. Voglio dire, come quando canti “Everybody Loves You For Your Black Eye” e intanto la parte posteriore della tua testa inizia a cedere. Comunque, suonavo tante canzoni che non avevo voglia di suonare. Cantavo parole che in realtà non volevo cantare. E non intendo parole come “Dio” e “madre” e “presidente” e “suicidio” e “mannaia da macellaio”. Intendo parolette semplici come “se” e “speranza” e “tu”. Ma Like A Rolling Stone cambiò tutto; da allora non me ne importa più di scrivere libri o poesie o altre cose. Voglio dire, era qualcosa che riusciva a piacere a me. È molto stancante sentire altri che ti dicono quanto gli piaci, se poi tu non ti piaci affatto. E’ anche mortale, da un punto di vista spettacolare. Contrariamente a quanto pensano certi personaggi paurosi, non suono con un gruppo, oggi, per motivi d’ordine propagandistico o commerciale. E’ soltanto che le mie canzoni sono immagini e il gruppo crea la colonna sonora delle immagini.


PLAYBOY: Ti pare che usare un gruppo e passare dal folk al folk-rock ti abbia migliorato come interprete?


DYLAN: Non m’interessa essere un interprete. Gli interpreti sono gente che si esibisce per altra gente. Diversi dagli autori, so quel che dico. Per me è semplicissimo. Non importa quali reazioni ottenga tutto questo dal pubblico. Quel che accade sul palco obbedisce a leggi proprie. Non s’attende ricompense o multe da nessun agitatore esterno. È ultra-semplice ed esisterebbe comunque, ci fosse o meno qualcuno che sta a guardare. Per quanto riguarda il folk e il folk-rock, non hanno importanza i nomi odiosi che la gente inventa per la musica. La si potrebbe chiamare musica arsenica o forse musica di Fedra; non credo che una parola come folk-rock ci abbia niente a che fare. E musica folk è una parola che non riesco a usare. La musica folk è un mucchio di persone grasse. Io devo pensare a tutto ciò come alla musica tradizionale. La musica tradizionale è basata sugli esagrammi. Viene da leggende, Bibbie, pestilenze e tratta di verdure e morte. Nessuno riuscirà a uccidere la musica tradizionale. Tutte queste canzoni che parlano di rose che crescono dal cervello della gente o di amanti che in realtà sono oche e cigni che si trasformano in angeli, non moriranno. Sono tutti questi personaggi paranoici, che pensano che stia per arrivare qualcuno a rubargli la carta igienica, sono loro che moriranno. Canzoni come “Which Side Are You On?” e “I Love You, Porgy” non sono canzoni folk, sono canzoni politiche. Sono già morte. Ovviamente, la morte non è accettata molto universalmente. Voglio dire, viene da pensare che gli autori di musica tradizionale siano riusciti ad estrapolare dalle loro canzoni che il mistero è un fatto, un fatto tradizionale. Io ascolto le vecchie ballate, ma non andrei a una festa ad ascoltarle. Potrei darti descrizioni dettagliate dell’effetto che hanno su di me, ma probabilmente qualcuno penserebbe che la mia immaginazione sia impazzita. Mi diverte da morire il fatto che la gente abbia la costanza di pensare che io godo di una qual immaginazione fantastica. Fa sentire molto soli. Comunque, la musica tradizionale è troppo irreale per morire. Non ha bisogno di protezione. Nessuno la può colpire. Quella musica contiene l’unica morte vera, valida, che oggi si possa tirar fuori da un giradischi. Ma come tutto ciò che è molto richiesto, la gente la vuole possedere. Ha qualcosa a che fare con la purezza. Penso che la sua mancanza di significato sia sacra. Tutti sanno che io non sono un cantante folk.


PLAYBOY: Qualcuno dei tuoi vecchi fans sarebbe d’accordo e non per farti un complimento, dal giorno del tuo debutto con un gruppo rock al Newport Folk Festival dell’anno scorso, quando molti di loro ti hanno sonoramente fischiato per esserti “venduto” al gusto del pop commerciale. Il primo Bob Dylan, pensavano, era il Bob Dylan “puro”. Come ti senti al proposito?


DYLAN: Ero come sbalordito. Ma non posso prendermela con nessuno per essere venuto a fischiarmi. In fin dei conti avevano pagato il biglietto. Forse avrebbero potuto starsene un po’ più tranquilli e non insistere tanto. Laggiù c’erano anche molte persone anziane; intere famiglie erano venute là fin dal Vermont, un sacco d’infermiere con i genitori, e dopo tutto erano venuti soltanto a sentire qualche vecchia canzone, sai come, magari una polka indiana o due. E proprio mentre tutto va bene, ecco che arrivo io e il posto si trasforma in una fabbrica di birra. Diverse persone, là, erano molto soddisfatte di quei fischi. Le ho viste dopo. In qualche modo mi offende, comunque, che tutti quelli che mi hanno fischiato dicono d’averlo fatto perché erano vecchi fans.


PLAYBOY: Che dici della loro accusa, che hai volgarizzato le tue doti naturali?


DYLAN: Che posso dire! Vorrei vedere uno di questi cosiddetti fans. Vorrei che gli bendassero gli occhi e lo portassero da me. È come andare nel deserto e gridare, e scoprire che ci sono dei bambini che ti tirano addosso i loro secchielli. Ho solo ventiquattro anni. Le persone che hanno detto questo… erano americani?


PLAYBOY: Americani o no, molta gente non ha apprezzato il tuo nuovo sound. Vista questa ampia reazione negativa, non pensi che modificare il tuo stile possa essere stato un errore?


DYLAN: Un errore è commettere un’incomprensione. Ma non ci può essere nulla di simile in questa mia azione. O la gente capisce (o fa finta di capire) oppure proprio non capisce. Quello di cui stai parlando è far cose sbagliate per motivi egoisti. Non conosco la parola giusta per esprimere questo, a meno che non sia suicidio. In ogni caso, non ha nulla che fare con la mia musica.


PLAYBOY: Errore o no, che cosa ti ha fatto decidere di scegliere la strada del rock’n’roll?


DYLAN: Negligenza. Ho perso il mio vero amore. Ho incominciato a bere. La prima cosa che so, è che sto giocando a carte. Poi mi ritrovo  in una sala da gioco. Poi una grossa signora messicana mi trascina via dal tavolo e mi porta a Filadelfia. Mi lascia solo nella mia casa e la casa va a fuoco. Finisco a Phoenix. Trovo lavoro come cinese. Inizio a lavorare in un negozietto e vado a vivere con una tredicenne. Poi arriva la grossa signora messicana e mi brucia la casa. Me ne vado a Dallas. Trovo lavoro come “prima” in un avviso pubblicitario del genere “prima e dopo”. Vado a vivere con un fattorino che sa cucinare chili e hot dog favolosi. Poi arriva la tredicenne di Phoenix e mi brucia la casa. Il fattorino che sa cucinare chili e hot dog non è un tipo tenero: le fa assaggiare il coltello e poi tutto quel che so è che sono a Omaha. Laggiù è tanto freddo, e a questo punto rubo da me le mie biciclette e cucino da me il pesce. M’imbatto in un po’ di fortuna e trovo lavoro come carburatore alle corse automobilistiche del giovedì sera. Vado a vivere con un’insegnante di liceo che fa anche l’idraulica a tempo perso, che non è granché a guardarla ma ha costruito un tipo speciale di frigorifero che trasforma i giornali in lattuga. Tutto procede bene, finché non si fa vivo quel fattorino e non tenta di accoltellarmi. Inutile dire che mi brucia la casa e sono di nuovo in strada. Il primo tizio che ho incontrato mi ha chiesto se volevo diventare una star. Che potevo dirgli?


PLAYBOY: Ed è così che sei diventato un cantante rock?


DYLAN: No, così mi sono preso la tubercolosi.


PLAYBOY: Riformuliamo la domanda: perché hai smesso di comporre e cantare canzoni di protesta?


DYLAN: Ho smesso di comporre e cantare qualunque cosa che avesse una ragione per essere scritta o un motivo per essere cantata. Ora, non prendetemi dalla parte sbagliata: “Protesta” non è una parola mia. Non ho mai pensato a me in questi termini. La parola “protesta”, credo, è stata coniata per la gente sottoposta a intervento chirurgico. E’ una parola da parco dei divertimenti. Una persona normale, sana di mente, dovrebbe farsi venire il singhiozzo a pronunciarla seriamente. La parola “messaggio”, secondo me, ha un suono decisamente erniario, che quasi m’impressiona. Proprio come la parola “delizioso”. E anche la parola “meraviglioso”. Sai, gli inglesi pronunciano benissimo la parola “meraviglioso”. Però non riescono a pronunciare bene “rauco”. Be’, tutti noi abbiamo le nostre difficoltà. Comunque, le canzoni con un messaggio, come tutti sanno, sono un bidone. Soltanto i redattori dei giornalini scolastici e le ragazzine sotto i quattordici possono sprecarci il loro tempo.


PLAYBOY: Hai detto di ritenere volgari le canzoni con un messaggio. Perché?


DYLAN: Be’, prima di tutto chiunque abbia un messaggio imparerà dall’esperienza che non può metterlo dentro una canzone. Voglio dire, non ne uscirà mai fuori lo stesso messaggio. Dopo un paio di tentativi falliti, ti accorgi di essere ormai incollato a quel messaggio risultante, che non è nemmeno il messaggio che avevi pensato all’inizio. Perché, dopo tutto, una canzone lascia la tua bocca appena ha lasciato le tue mani. Mi segui?


PLAYBOY: Oh, perfettamente.


DYLAN: Be’, comunque, in secondo luogo, devi anche rispettare il diritto degli altri ad avere i loro messaggi. Io, da parte mia, vorrei affittare il municipio e mettere in cartellone tanti fattorini della Western Union (Compagnia telegrafica statunitense (N.d.T.). Voglio dire, in questo modo ci sarebbero davvero dei messaggi. La gente potrebbe venire e ascoltarsi più messaggi di quanti ne abbia sentiti in tutta la sua vita.


PLAYBOY: Ma le tue prime ballate sono state definite “canzoni di appassionata protesta”. Questo non le rende musiche “con un messaggio”?


DYLAN: Questo non è importante. Non capisci ? Io scrivo da quando avevo otto anni. Suono la chitarra da quando ne avevo dieci. Sono cresciuto suonando e scrivendo qualunque cosa avessi da suonare e scrivere.


PLAYBOY: Allora sarebbe poco gentile dire, come è stato detto, che sono stati motivi commerciali più che creativi a farti scrivere le canzoni che ti hanno reso popolare?


DYLAN: Molto bene, ora, guarda. Non è una questione così profonda. Non è complicato. I miei motivi, o quello che sono, non sono mai stati commerciali nel senso monetario della parola. Si trattava  piuttosto  del  senso  non-morire-con-la-sega-in-mano della parola. Non l’ho mai fatto per denaro. È successo, e io ho lasciato che mi succedesse. Non c’era motivo per non lasciare che succedesse. Comunque, prima d’ora non sarei riuscito a scrivere quel che scrivo oggi. Le canzoni parlavano di quanto vedevo e provavo. Non c’è mai entrato nulla del mio personale vomito ritmico. Il vomito non è romantico. Allora pensavo che le canzoni avrebbero dovuto essere romantiche. E non volevo cantare nulla che non fosse determinato. Le cose indeterminate sono prive di senso del tempo. Nessuno di noi ha senso del tempo, è un grosso problema dimensionale. Chiunque può essere determinato e ovvio. È stato sempre quello il modo facile. I leader del mondo scelgono il modo facile. Non che sia difficile essere indeterminati e meno ovvi; è solo che non c’è nulla, assolutamente nulla, su cui essere determinati e ovvi. Le mie vecchie canzoni, a dir poco, non parlavano di niente. Le nuove parlano dello stesso niente; solo, come fosse visto dall’interno di qualcosa di più grande, forse chiamato il nulla assoluto [In inglese: nowhere, cioè “nessun luogo” (N.d.T.)]. Ma tutto ciò è assai costipato. Io so quanto valgono le mie canzoni.


PLAYBOY: E sarebbe?


DYLAN: Oh, qualcuna vale per quattro minuti, qualcuna per cinque, e qualcuna che tu ci creda o no, vale per circa undici o dodici.


PLAYBOY: Non potresti essere un po’ più informativo?


DYLAN: No.


PLAYBOY: Va bene. Cambiamo argomento. Come sai, i tuoi ascoltatori hanno un’età che va circa da sedici a ventitré anni. Perché secondo te?


DYLAN: Non vedo che cosa ci sia di strano nel fatto che i miei ascoltatori abbiano quell’età. Sono abbastanza intelligente da capire che non saranno le persone tra gli ottantacinque e i novanta. Se le persone tra gli ottantacinque e i novanta ascoltassero le mie canzoni, saprebbero che io non ho niente da dire loro. Le persone tra i sedici e i ventitrè anni probabilmente sanno che non ho niente da dire neanche a loro; e sanno che io lo so. È una faccenda divertente. Naturalmente non sono un computer IBM, non più di quanto sia un portacenere. Voglio dire, è evidente a chiunque abbia mai dormito sul sedile posteriore d’un’auto che io non sono assolutamente un maestro di scuola.


PLAYBOY: Anche se non sei un maestro di scuola, non ti piacerebbe aiutare i giovani che ti amano, a diventare qualcosa di diverso da quello che sono diventati alcuni dei loro genitori?


DYLAN: Bene, devo dire che io non li conosco proprio, i loro genitori. Per la verità, non so se esistano genitori così pessimi. Ora, odio l’idea di sembrare un debole o un codardo e capisco che
può sembrare in qualche modo irreligioso, ma non sono proprio la persona giusta per andare in giro per tutta la nazione a salvare anime. Non passerei mai sopra a un uomo disteso attraverso la strada e certo non sceglierei il mestiere del boia. Non esiterei a dare una sigaretta a un affamato. Ma non sono un pastore. E non ho intenzione di salvare nessuno dal suo fato, di cui oltretutto non so nulla. «Genitori», in questo caso, non è la parola chiave. La parola chiave è «destino». Da quello non posso salvarli.


PLAYBOY: Eppure, migliaia di giovani ti vedono come un eroe folk. Non senti un qualche senso di responsabilità verso di loro?


DYLAN: Non sento responsabilità, no. Chiunque sia ad ascoltare le mie canzoni, non deve niente a me. Come potrei avere delle responsabilità verso tutte quelle migliaia di persone? Cosa potrebbe farmi pensare che io devo qualcosa a qualcuno che semplicemente è qui? Non ho mai scritto una canzone che incomincia con le parole: “Vi ho riunito qui stasera…”. Non ho intenzione di dire a nessuno di essere un bravo ragazzo o una brava ragazza e così andranno in paradiso. Proprio non so che cosa pensa di me la gente che sta dalla parte di chi ascolta le mie canzoni, comunque è orribile. Scommetto che Tony Bennet non deve passare attraverso queste cose. Mi chiedo che cosa avrebbe risposto Billy The Kid a una domanda simile.


PLAYBOY: Nella loro ammirazione per te, molti giovani hanno iniziato ad imitare il tuo modo di vestire, che un commentatore adulto ha definito “coscientemente eccentrico e tremendamente trasandato”. Qual è la tua reazione a questo genere di critica?


DYLAN: Cazzate. Oh, che cazzate. Conosco quello che le ha dette. Una volta veniva da queste parti e prendeva sempre botte. Farebbe bene a starci attento. C’è gente che ce l’ha con lui. Lo voglio denunciare e mettere alla gogna in Times Square. Lo legheranno e gli metteranno anche un termometro in bocca. Queste idee, questi commenti morbosi, sono così stupidi; voglio dire, è in corso una “guerra”. La gente è rachitica, tutti vogliono fare una rivolta, donne quarantenni mangiano spinaci vicino al bagagliaio della macchina, i medici non hanno una cura per il cancro ed ecco qui quest’imbecille che dice che non gli piace il modo di vestire altrui. Peggio ancora, lo stampano sui giornali, e persone innocenti sono obbligate a leggerlo. E’ una cosa terribile. E lui è un uomo tremendo. Naturalmente il grasso gli scoppia fuori da tutti i pori e lui si aspetta che i figli si prendano cura di lui. Probabilmente i suoi figli ascoltano i miei dischi. Il fatto che i miei vestiti sono troppo lunghi implica per forza che non sono qualificato a fare quello che faccio?


PLAYBOY: No, ma c’è chi la pensa cosi, e molti di costoro sembrano pensarla allo stesso modo riguardo i tuoi capelli lunghi. Ma al confronto dei tagli con capelli lunghi fino alle spalle oggi in voga tra i cantanti rock, i tuoi gusti tonsori sembrano conservatori. Cosa provi verso queste acconciature estremistiche?


DYLAN: Quello che la maggior parte della gente non capisce è che i capelli lunghi tengono più caldo. Tutti vogliono stare caldi. Le persone con i capelli corti hanno facilmente freddo. Allora cercano di nascondere il loro freddo e diventano gelosi di chiunque si senta caldo. Alla fine diventano o barbieri o deputati. Tanti secondini hanno i capelli corti. Hai mai notato che Abramo Lincoln aveva i capelli molti più lunghi di John Wilkes Booth?


PLAYBOY: Credi che Lincoln portasse i capelli lunghi per tenerci la testa al caldo?


DYLAN: In realtà, penso che lo facesse per motivi medici, che non sono affari miei. Ma se cerchi d’immaginartelo, capisci che i capelli di ciascuno di noi circondano e ricoprono il cervello dentro la testa. In termini matematici, più capelli riesci a tirarti fuori dalla testa meglio è. Chi vuol pensare liberamente a volte sorvola sul fatto che bisogna avere il cervello sgombro. Naturalmente, se porti i capelli sull’esterno della testa, il tuo cervello sarà un po’ più libero. Ma tutto questo parlare di capelli lunghi è un trucco. È stato ideato da uomini e donne che sembrano sigari; il comitato anti-felicità. Sono tutti scaricatori e poliziotti. Si vede benissimo chi sono: hanno sempre in mano calendari, pistole o forbici. Cercano tutti di entrare nelle tue sabbie mobili. Pensano che tu abbia in mano qualcosa. Non so perché Abe Lincoln portava i capelli lunghi.


PLAYBOY: Fino al tuo abbandono delle canzoni “con messaggio”, tu eri considerato non solo una delle voci più importanti del movimento di protesta degli studenti, ma anche un campione militante della lotta per i diritti civili. Secondo amici, pareva che tu avessi un particolare legame di fratellanza con lo Student Nonviolent Coordinating Committee, cui fornivi supporto attivo sia come attivista sia come volontario. Perché hai smesso di partecipare a tutte queste attività? Hai perso interesse anche verso la protesta, oltre che verso le canzoni di protesta?


DYLAN: Per quanto riguarda lo SNCC, io conoscevo qualcuno dei suoi vecchi membri ma soltanto come persone; non come parte di qualcosa che era più grande o più bello di loro. Non sapevo neanche che cosa fossero i diritti civili prima di incontrarli. Voglio dire, sapevo che esistevano i negri e sapevo che c’erano tantissime persone che non amavano i negri. Ma devo ammettere che se non avessi conosciuto qualcuno degli attivisti del SNCC avrei continuato ad essere convinto che Martin Luther King non fosse altro che un eroe di guerra poco privilegiato. Non ho mai avuto interesse nella protesta, fin dall’inizio, non più di quanto ne avessi negli eroi di guerra. Non si può perdere ciò che non si è mai avuto. Comunque, quando non ti piace la tua situazione, o la lasci perdere o la superi. Non puoi startene lì e limitarti a piagnucolare. Gli altri si accorgono soltanto del rumore che fai, non si accorgono davvero di te. Anche se ti danno quello che vuoi, è solo perché tu fai troppo rumore. Allora, dapprima desideri qualcos’altro, poi desideri qualcos’altro, poi desideri qualcos’altro, e alla fine non è più uno scherzo, e quelli contro cui protesti, chiunque siano, finiscono per stufarsi e saltano in testa tutti. Certo, puoi andare in giro a educare quelli che sanno meno di te ma allora non dimenticare che stai scherzando con la legge di gravità. Io non combatto la gravità. Credo nell’uguaglianza ma credo anche nella distanza.


PLAYBOY: Vuoi dire che la gente dovrebbe tenere le distanze razziali?


DYLAN: Credo nella gente che si tiene tutto quello che ha.


PLAYBOY: Qualcuno potrebbe pensare che cerchi di evitare di combattere per le cose in cui credi.


DYLAN: Costoro sarebbero persone che pensano che io abbia qualche sorta di responsabilità verso di loro. Probabilmente vogliono che li aiuti a farsi degli amici. Non so. Probabilmente vogliono o mettermi in casa loro e farmi venir fuori ogni ora a dir loro che ora è oppure vogliono soltanto stiparmi tra i materassi. Come potrebbero mai capire in che cosa credo?


PLAYBOY: Bene, ma in che cosa credi?


DYLAN: Te l’ho già detto.


PLAYBOY: D’accordo. Molti dei tuoi colleghi folksingers sono tuttora attivi nella lotta per i diritti civili, per la libertà di parola e il ritiro dal Vietnam. Pensi che abbiano torto?


DYLAN: Non credo che abbiano torto, se è davvero quello che vogliono fare. Ma non credere di avere a che fare con un drappello di piccoli Budda che marciano in parata. Quelli che usano Dio come arma dovrebbero essere mutilati. Lo vedi sempre scritto dappertutto: “Sii buono o non piacerai a Dio e andrai all’inferno”. Roba del genere. Quelli che marciano con slogan e simili, tendono a perdersi un po’ troppo sul sacro. Sarebbero un vero schifo se anche loro si mettessero a usare Dio come arma.


PLAYBOY: Trovi inutile dedicarti alla causa della pace e dell’uguaglianza razziale?


DYLAN: Non è inutile dedicarsi alla pace e all’uguaglianza razziale, piuttosto è inutile dedicarsi alla “causa”. È molto da ignorante. Dire “causa della pace” è come dire “pezzo di burro”. Voglio dire, come puoi stare ad ascoltare qualcuno che ti vuole far credere che si dedica al pezzo e non al burro! Quelli che non riescono a concepire come gli altri stanno male, sono loro che cercano di cambiare il mondo. Hanno tutti paura di ammettere che non si comprendono l’un l’altro. È probabile che saranno ancora qui molto tempo dopo che noi ce ne saremo andati e noi metteremo alla luce i nostri discendenti. Ma, quanto a loro, non credo che riusciranno a mettere alla luce alcunché.


PLAYBOY: Sembri un po’ fatalista.


DYLAN: Non sono fatalista. I cassieri di banca sono fatalisti. Gli impiegati sono fatalisti. Io sono un agricoltore. Chi ha mai sentito parlare di un agricoltore fatalista! Non sono fatalista. Fumo un sacco di sigarette ma questo non mi rende fatalista.


PLAYBOY: Di recente, risulta che tu abbia affermato che “le canzoni non possono salvare il mondo. Io ho superato tutto ciò”. Ne deduciamo che non condividi la convinzione di Pete Seeger, che le canzoni possono cambiare la gente, che possono aiutare a costruire la comprensione internazionale.


DYLAN: A proposito della comprensione internazionale, O.K. Ma lì sorge un problema di traduzione. Chiunque arrivi a questo genere di livello intellettuale deve anche tener conto di questa faccenda della traduzione. Ma non credo, comunque, che le canzoni possano cambiare le persone. Non sono Pinocchio. Lo considero un insulto. Non sono parte di quella storia. Non biasimo nessuno perché la pensa così. Ma non dono neanche a loro i miei soldi. Non che li consideri fuori moda; sono piuttosto nella categoria degli elastici di gomma.


PLAYBOY: Come ti senti di fronte a chi ha rischiato la galera bruciando la cartolina precetto, per significare la propria opposizione alla politica USA in Vietnam o rifiutando, come ha fatto la tua amica Joan Baez, di pagare la tassa sul reddito per protestare contro le spese governative per armi e guerra? Pensi che perdano il loro tempo?


DYLAN: Bruciare le cartoline precetto non porrà termine a nessuna guerra. Né salverà delle vite. Se qualcuno si sente più onesto di fronte a sé stesso bruciando la sua cartolina precetto, benissimo. Ma se si sente soltanto più importante perché lo ha fatto, allora è una schifezza. Quanto a Joan Baez, non è che sappia granché di lei e dei suoi problemi fiscali. L’unica cosa che posso dirti a proposito di Joan Baez è che non è Belle Starr.


PLAYBOY: Scrivendo di “barbuti incendiari di cartoline precetto ed evasori fiscali pacifisti” un commentatore ha definito questo genere di contestatori “non meno estranei alla società che il junkie,
l’omosessuale o l’assassino di massa”. Qual è la tua reazione?


DYLAN: Non credo a termini come quelli. Sono troppo isterici. Non descrivono nulla. La maggior parte delle persone crede che omosessuale, gay, pederasta, checca, finocchio siano tutte la stessa parola. Chiunque pensa che un junkie sia un freak è drogato. Per quanto mi riguarda, non mi considero estraneo a nulla. Semplicemente, mi considero fuori dalla circolazione.


PLAYBOY: Joan Baez ha recentemente aperto una scuola nella California del Nord per insegnare ai lavoratori la filosofia e le tecniche della non-violenza. Condividi quel concetto?


DYLAN: Se intendi chiedermi se sono d’accordo o meno, non vedo proprio che cosa ci sia con cui essere d’accordo. Se chiedi se l’approvo temo di sì ma la mia approvazione non sarà della minima utilità. Non conosco le simpatie degli altri ma la mia va agli zoppi, agli storpi e alle cose belle. Mi danno sensazione di perdita d’energia, qualcosa come un senso di reincarnazione. Non lo provo verso gli oggetti meccanici, come automobili o scuole. Sono certo che è una bella scuola ma se mi chiedessi se ci vorrei andare, dovrei risponderti di no.


PLAYBOY: Da escluso dell’università in età giovanile, sembra che tu abbia una visione sgradevole della scuola in generale, qualunque sia l’argomento.


DYLAN: a questo proprio non ci penso.


PLAYBOY: Be’, non hai mai avuto il rimpianto di non aver terminato l’università?


DYLAN: Sarebbe ridicolo. Le università sono come le vecchie case; a parte il fatto che muore più gente all’università che nelle vecchie case, non c’e la minima differenza. Le persone hanno un gran dono, l’oscurità, e quasi nessuno è grato per questo. A tutti è sempre stato insegnato a essere riconoscente per il cibo, i vestiti e simili ma non a essere riconoscente per la propria oscurità. Quello le scuole non l’insegnano. Insegnano a diventare ribelli o avvocati. Non che io voglia svalutare il sistema scolastico; sarebbe troppo stupido. E’ solo che non ha granché da insegnare. Le università sono parte dell’Istituzione Americana. Tutti le rispettano. Sono molto ricche e influenti ma non hanno nulla a che vedere con la sopravvivenza. Tutti lo sanno.


PLAYBOY: Allora consiglieresti ai giovani di evitare l’università?


DYLAN: Non consiglierei nulla a nessuno. Certo non consiglierei a nessuno di evitare l’università. Soltanto non pagherei la sua permanenza all’università.


PLAYBOY: Non credi che le cose che s’imparano all’università possano aiutare ad arricchire la vita?


DYLAN: Non credo che nulla di quel genere possa arricchire la mia vita, no; non la mia vita, comunque. Le cose accadono, che io ne sappia il motivo o meno. Diventa soltanto più complicato quando tu ti ci metti in mezzo. Non scopri perché le cose si muovono. Le lasci muovere; le guardi muoversi; le fermi mentre si muovono. Le lasci muovere. Ma non ti siedi lì a cercare di capire perché c’è movimento; a meno che, naturalmente, tu non sia un innocente idiota o un qualche vecchio saggio giapponese. Di tutti quelli che se ne stanno lì a chiedersi “perché”, quanti pensi che lo vogliano davvero sapere?


PLAYBOY: Sai suggerire un uso migliore per i quattro anni che altrimenti si passerebbero all’università?


DYLAN: Allora: potresti fare un salto in Italia. Potresti andare in Messico. Potresti fare lo sguattero. Potresti persino andare nell’Arkansas. Non so, ci sono migliaia di cose da fare e di posti dove andare. Tutti pensano che tu debba battere la testa contro il muro ma è stupido, se appena ci pensi. Voglio dire, ci sono questi fantastici scienziati che lavorano a metodi per prolungare la vita umana e poi ci sono altri che danno per scontato che tu debba battere la testa contro il muro per essere felice. Non puoi prendere tutto ciò che non ti piace come un insulto personale. Temo che dovresti andare dove i tuoi desideri sono nudi, dove sei invisibile e non necessario


PLAYBOY: Classificheresti il sesso fra i tuoi desideri, ovunque tu vada?


DYLAN: II sesso è qualcosa di temporaneo. Il sesso non è l’amore. Puoi trovare del sesso dappertutto; ma se cerchi qualcuno che ti ama, allora è diverso. Temo che si debba andare all’università, per questo.


PLAYBOY: Dal momento che non sei rimasto all’università, vuoi dire che non hai trovato nessuno che ti ama?


DYLAN: Passiamo alla prossima domanda.


PLAYBOY: Hai difficoltà ad entrare in relazione con le persone o viceversa?


DYLAN: A volte ho la sensazione che gli altri vogliano la mia anima. Se gli dico: “Io non ho un’anima”, mi rispondono  “Lo so, non devi dirmelo, non a me. Mi prendi per stupido? Io sono
tuo amico”. Che posso dire, tranne forse pensare che lo star male e la paranoia sono la stessa cosa?


PLAYBOY: Si dice che la paranoia sia uno degli stati mentali a volte indotti dagli allucinogeni come peyote e LSD. Considerati i fattori di rischio, pensi che la sperimentazione di simili droghe dovrebbe essere parte delle esperienze di maturazione di un giovane?


DYLAN: Non consiglierei a nessuno l’uso di droghe, certo non di droghe pesanti. Le droghe sono medicine. Ma oppio e hashish e erba… ora, queste non sono droghe. Si limitano a curvarti la mente un pochino. Direi che tutti dovrebbero lasciarsi curvare la mente, una volta ogni tanto. Ma non con l’LSD. L’LSD  è una medicina, un altro tipo di medicina. Ti rende conscio dell’universo, per così dire. Capisci quanto sono stupidi gli oggetti.  Ma  l’LSD  non  è  per  gente  giusta.  È  per  i  matti,  per  chi odia e vuole vendetta. È per quelli che di solito hanno attacchi di cuore. Dovrebbero usarlo alla Convenzione di Ginevra.


PLAYBOY: Ora che ti avvicini ai trenta, sei preoccupato di poter diventare uno “square”, perdere parte della tua apertura all’esperienza, disprezzare il mutamento e la novità?


DYLAN: No. Ma se succede, succede. Che cosa dire? Sembra che non esista un domani. Ogni volta che mi sveglio, non importa in quale posizione, è sempre un oggi. Guardare avanti e preoccuparsi di piccole cose banali, non direi abbia più importanza che guardarsi indietro e ricordare piccole cose banali. Non diventerò mai un istruttore di poesia in una scuola femminile; questo lo so per certo. Ma è più o meno tutto quel che so per certo. Semplicemente, mi metterò a fare queste cose diverse, temo.


PLAYBOY: Del tipo ?


DYLAN: Svegliarmi in diverse posizioni.


PLAYBOY: E che altro?


DYLAN: Sono fatto come chiunque altro. Proverò di tutto almeno una volta.


PLAYBOY: Compresi furto e omicidio ?


DYLAN: Non posso dire che non commetterei mai furto o omicidio e attendermi che qualcuno mi creda. Io non crederei mai a nessuno che mi dicesse una cosa simile.


PLAYBOY: Verso i venticinque anni, la maggior parte delle persone hanno incominciato ad adagiarsi nella loro nicchia, a trovarsi un posto nella società. Ma tu sei riuscito a mantenere la tua direzione interiore e a non comprometterti. Che cosa ti ha spronato a scappare di casa sei volte tra i dieci e i diciott’anni e infine ad andartene definitivamente?


DYLAN: Niente. È stato soltanto un incidente geografico. Per dire, se fossi nato e cresciuto a New York o a Kansas City, sono sicuro che tutto sarebbe andato diversamente. Ma Hibbing, Minnesota, non era il posto giusto per me, non per restarci a Vivere. Non c’era proprio niente, laggiù. L’unica cosa che si poteva fare, là, era il minatore, e anche di quei posti di lavoro ce n’erano sempre meno. Quelli che vivono là… sono brava gente. Sono stato in tutto il mondo da quando me ne sono andato di là e ancora loro restano di tutti i meno indisponenti. Le miniere stavano morendo, ecco tutto; ma non era colpa loro. Tutti quelli che avevano la mia età se ne sono andati. Non è stata una gran cosa romantica. Non ci voleva un gran pensare o genio individuale, e certo non c’era il minimo orgoglio a farlo. Non sono scappato da Hibbing; le ho solo girato le spalle. Non avrebbe potuto darmi nulla. Era estremamente vuota. Per cui lasciarla non è stato difficile. Sarebbe stato molto più difficile rimanere. Non volevo morire laggiù. Anche se, ripensandoci ora, non sarebbe un brutto posto per tornarci a morire. Non c’è un posto cui oggi mi senta più vicino o di cui abbia la sensazione di far parte, a parte New York. Ma non sono un newyorkese. Sono un Nord Dakota-Minnesota midwestern. Vengo da un posto che si chiama Iron Range. Ho quel colore; parlo a quel modo. Il mio cervello e il mio modo di sentire vengono di là. Non farei mai un’amputazione a uno che sta annegando. Nessuno che venga di là lo farebbe.


PLAYBOY: Oggi sei sulla buona strada per diventare milionario. Non ti senti in pericolo d’essere intrappolato da tutto quest’afflusso di denaro, e dalle cose che puoi comprare?


DYLAN: No, il mio mondo è molto piccolo. Il denaro non può assolutamente migliorarlo. Il denaro può solo preservarlo dall’essere soffocato.


PLAYBOY: Quasi tutte le grandi stars trovano difficile evitare d’essere coinvolte dalla cura manageriale della loro carriera. Come uomo di successo in ben tre carriere (performer, cantante, discografico e autore) ti senti mai inscatolato da queste responsabilità non creative?


DYLAN: No. Ci sono altri che lo fanno per me. Tengono d’occhio il mio denaro. Gli fanno guardia. Ci tengono sopra costantemente gli occhi. Si presume che siano estremamente acuti nelle questioni di soldi. Sanno che cosa fare del mio denaro. Ne uso molto per pagarli. Non è che parli molto con loro e loro non parlano con me del tutto, quindi immagino che sia tutto a posto.


PLAYBOY: Se la fortuna non ti ha intrappolato, che mi dici della fama? Trovi che la tua celebrità ti renda difficile mantenere intatta la tua vita privata?


DYLAN: La mia vita privata è stata pericolosa fin dal principio. Tutto questo non fa che aggiungere un poco d’atmosfera.


PLAYBOY: Un tempo ti piaceva andare in giro per il paese, partire per viaggi liberi, vagabondare da città a città senza particolari destinazioni in mente. Ma sembri farlo molto meno di frequente in
questo periodo. Perchè?  È perché sei troppo ben conosciuto?


DYLAN: È soprattutto perché il venerdì sera devo essere a Cincinnati e la sera dopo ad Atlanta e poi, la sera successiva a quella, devo trovarmi a Buffalo. Poi devo scrivere qualche canzone per il prossimo album.


PLAYBOY: Riesci ancora a trovare il tempo per salire sulla motocicletta?


DYLAN: Mantengo ancora il mio patriottismo autostradale ma non guido più molto la moto, no.


PLAYBOY: Allora come fai, oggi, a prenderti i tuoi calci?


DYLAN: Affitto delle persone che mi guardino negli occhi e poi mi faccio prendere a calci.


PLAYBOY: Ed è così che ottieni i tuoi calci?


DYLAN: No. Dopo li perdono. Ed è a quel punto che arriva il calcio.


PLAYBOY: L’anno scorso hai detto ad un intervistatore: “Ho fatto tutto quel che ho mai voluto fare”. Se è vero, che cosa ti è rimasto da cercare?


DYLAN: La salvezza. Soltanto la semplice salvezza.


PLAYBOY: Niente altro ?


DYLAN: Pregare. Mi piacerebbe anche fondare una rivista di cucina. E ho sempre voluto essere arbitro di boxe. Vorrei arbitrare un combattimento del campionato pesi massimi. Te l’immagini? Te l’immagini un pugile sano di mente che riconosce me?


PLAYBOY: Se la tua felicità svanisse, come accoglieresti l’idea di tornare anonimo?


DYLAN: Intendi accoglierla come accoglierei un povero pellegrino venuto dalla pioggia? No, non sarei felice di accoglierla. Ma potrei accettarla. Un giorno, ovviamente, sarò obbligato ad accettarla.


PLAYBOY: Pensi mai a sposarti, metterti a posto, avere una casa, magari vivere all’estero? Ti piacerebbe godere di qualche lusso, per dire uno yacht o una Rolls-Royce?


DYLAN: No, non penso a queste cose. Se avessi voglia di comprarmi qualcosa, la comprerei. Tu mi stai chiedendo del futuro, del mio futuro. Io sono l’ultima persona al mondo cui chiedere qualcosa del mio futuro.


PLAYBOY: Stai dicendo che ti limiterai ad essere passivo e lasciare che le cose ti accadano?


DYLAN: Be’, questo significa essere molto filosofici al proposito ma temo che sia vero.


PLAYBOY: Un tempo progettavi di scrivere un romanzo. Ci pensi ancora?


DYLAN: Non credo. Tutto quello che scrivo va a finire in canzoni ora. Le altre forme d’espressione non m’interessano più.


PLAYBOY: Hai qualche ambizione insoddisfatta?


DYLAN: Ho sempre desiderato, temo, di essere Anthony Quinn in “La strada”. Non sempre; solo per sei anni, a tutt’oggi. Non è uno di quei sogni infantili. Oh, ora che ci penso ho anche sempre desiderato di essere Brigitte Bardot. Ma non voglio pensarci troppo, a questo.


PLAYBOY: Non hai mai coltivato il sogno dell’adolescente medio, di diventare il Presidente?


DYLAN: No. Quando ero ragazzo, il presidente era Harry Truman. Chi potrebbe desiderare di essere Harry Truman!


PLAYBOY: Bene, supponiamo che tu fossi il presidente. Che cosa vorresti realizzare durante i tuoi primi mille giorni?


DYLAN: Giusto per ridere, visto che insisti, la prima cosa che farei sarebbe spostare la Casa Bianca. Invece di lasciarla in Texas la metterei nell’East Side di New York. Mc George Bundy sarebbe assolutamente obbligato a cambiare nome e il Generale McNamara sarebbe costretto a portare un berretto di tasso con tendine. Riscriverei immediatamente The Star-Spangled Banner e i bambini a scuola, invece di imparare a memoria America The Beautiful, dovrebbero imparare Desolation Row. E telefonerei immediatamente a Mao Tse-Tung per un incontro di lotta. Lo combatterei personalmente; e troverei qualcuno per farci un film.


PLAYBOY: Un’ultima domanda. Anche se ti sei più o meno ritirato dalla protesta politica e sociale, riesci a immaginare delle circostanze che potrebbero persuaderti a ritornarci?


DYLAN: No, a meno che tutti gli abitanti del mondo sparissero.

✎ Redazione

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