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Intervista

Bob Dylan: L’intervista di Rolling Stone (Seconda Parte)

L’intervista

Rolling Stone: Avevi intenzione di diventare una star?

Dylan: Non sul serio, perché io ho sempre avuto bisogno di una canzone per avere successo. Ci sono un sacco di cantanti che non hanno bisogno di canzoni per sfondare. Un mucchio di loro sono alti, belli, sai? Non hanno bisogno di dire qualcosa per far presa sulla gente. Io dovevo riuscirci con qualcos’altro che non il mio aspetto o la mia voce.

Rolling Stones: Cosa ti ha fatto decidere di diventare un cantante ed autore di rock’n’roll?

Dylan: Bè, dunque, Chuck Berry era un cantante ed autore di rock & roll. Perciò io non ho mai provato a scrivere canzoni di rock & roll, perché pensavo che l’avesse già fatto lui. Quando ho iniziato a scrivere canzoni, dovevano essere diverse. Perché, chi vuole essere il secondo in classifica? Una nuova generazione era cresciuta, ed io ne facevo parte — la seconda generazione del rock & roll. Per me, e per gli altri come me, era uno stile di vita.

Rolling Stone: Com’era la scena del rock quando arrivasti a New York nei primi anni sessanta?

Dylan: Quello che stava succedendo era Joey Dee and the Starliters, ecco come era, una scena twist. C’era una vera e propria mania per il twist. C’erano dei buchi, credo, in tutto il Paese dove la gente suonava del rock & roll. Ma era terribilmente difficile. Ho conosciuto dei tizi che suonavano nel Greenwich Village, e per fare del denaro extra suonavano in clubs di midtown come il Metropole, che era un locale di spettacoli di varietà sulla Settima Avenue. Erano posti incredibili. Potevi suonare per sei ore e tirar su dieci dollari, e c’era una spogliarellista per tutto il tempo. Molto avvilente. Dovevi fare del denaro per suonare con strumenti elettrici. Questo è il motivo che mi ha fatto allontanare da ciò, in realtà. Era troppo dura.

Rolling Stone: Così optasti per la musica folk.

Dylan: La musica folk crea un suo pubblico. Perché puoi portare una chitarra dovunque, in qualsiasi momento. La maggioranza dei luoghi in cui suonavamo nei primi tempi erano tutte feste in casa. Bastava un qualsiasi tipo di motivo per andare a suonare da qualche parte e noi eravamo lì.

Rolling Stone: Sei rimasto sorpreso dalla reazione del pubblico alle tue prime canzoni, oppure dall’eventuale consenso della massa?

Dylan: No, davvero. Perché avevo pagato i miei debiti. Non successe tutto dalla sera alla mattina, sai. Mi sono affermato un passo alla volta. E sapevo quando realizzavo qualcosa di buono. Per esempio, “Song to Woody”, sul mio primo disco: sapevo che nessuno aveva mai scritto niente di simile prima.

Rolling Stone: Tuttavia, dato il tuo stile unico di scrivere e di cantare, tu sembravi un candidato improbabile per il divismo sulla scena pop della metà degli anni sessanta.

Dylan: Bè, non stavo provando di arrivare alla radio. Non cantavo per Tin Pan Alley. Avevo rinunciato a tutta quella roba. Io volevo fare dischi, ma pensavo che il più lontano che potessi arrivare era fare un disco di musica folk. Fui incredibilmente sorpreso quando fui messo sotto contratto dalla Columbia Records. Fui il più sorpreso di tutti. Ma non ho mai lasciato che questo mi fermasse (risate). Quando ripenso alle mie prime canzoni adesso, sono sorpreso di averne scritte tante. All’epoca sembrava una cosa naturale da fare. Ora riesco a guardarmi indietro e vedere che devo avere scritto quelle canzoni “nello spirito”, capisci? Come “Desolation Row” – ci stavo giusto pensando l’altra sera. Non c’è una maniera logica con la quale riesci ad arrivare a versi come quelli. Non so come l’ho scritta.

Rolling Stone: Ti è solo venuta?

Dylan: E’ solo venuta fuori attraverso me.

Rolling Stone: All’epoca di “Desolation Row”, nel 1965, hai iniziato a fare dischi con arrangiamenti elettrici e sei stato più o meno espulso dal movimento dei puristi folk. E’ stata un’esperienza dolorosa?

Dylan: No. Quella mi sembrò un’opportunità di tornare a quello che ero stato molto tempo prima. I circoli di musica folk erano molto freddi, comunque. Tutti erano parecchio rigorosi e severi nei loro atteggiamenti; era un tipo di scena molto soffocante. Non mi scocciò il fatto che la gente non capisse quello che stavo facendo, perché lo stavo facendo da molto tempo prima che loro fossero attorno. E sapevo, mentre facevo quelle cose, che non erano state fatte prima. Perché conoscevo tutta la roba che era stata fatta prima. Conoscevo quello che i Beatles stavano facendo, e che sembrava vero pop. I Rolling Stones facevano cose blues, proprio blues duro. I Beach Boys, naturalmente, facevano roba che io non pensavo non fosse mai stata fatta prima. Ma sapevo anche che io stavo facendo roba che non era mai stata fatta prima.

Rolling Stone: Hai mai preso in considerazione l’idea di trasferirti in un altro paese? Dove ti sentiresti più come a casa tua?

Dylan: Io sto bene dovunque la gente non mi ricordi chi sono. Ogni volta qualcuno mi ricorda chi sono.

Rolling Stone: Ma tu sei una stella…

Dylan: Già, bè, credo di sì. Ma, uh… Mi sento come una stella, ma posso risplendere per quelli per i quali voglio risplendere. Capisci cosa intendo?

✎ Redazione

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